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La solitudine e la paura – ex captivitate salus

La solitudine mi e’ familiare e estranea. La conosco da sempre, dal principio di quanto ho mai conosciuto. E la seguo e la evito come una compagna di danza. Da sempre cerco di evitare la solitudine nella domesticita’ dei miei giorni, perche’ in qualche modo la conosco da troppo tempo. Quantomeno nella commedia della mia vita – forse mi sono detto – che quantomeno li’ mi sia risparmiata la solitudine. E cosi’ mi ritrovo adesso, tanti anni dopo l’inizio del percorso che fa di un bambino un uomo (e quindi un uomo solo) ad affrontare per la prima volta la solitudine con la disponibilita’ di chi attende un ospite. E’ passato poco piu’ di un mese da quando e’ finita la relazione con la donna che amavo. Lei ha lasciato la casa in cui vivevamo insieme e dopo qualche giorno in famiglia sono tornato. La prima cosa che ho fatto, al ritorno, e’ stata raccontarmi la solitudine come una vallata fertile di opportunita’. Finalmente potevo far crescere quello che volevo – prima di tutto, me stesso. Come tutti gli agricoltori sono diventato agrimensore, e da li’ avido proprietario del nuovo spazio a mia disposizione. Ho cambiato i quadri alle pareti, ho buttato il superfluo che sentivo non mi appartenesse. Ho riempiti gli spazi rimasti vuoti con un costante muovermi, incontrare, fare qualcosa o anche fare niente come se fosse qualcosa. Poi il dipinto della mia vita nuova ha iniziato a invecchiare prematuramente – la sua vernice si e’ scrostata un poco, quel tanto che basta per rivelare il suo essere un quadro. E come ogni cambio di prospettiva ha rivelato dietro di se’ una dimensione ulteriore. Per meglio dire l’ha ricordata, usando nomi antichi e nuovi. Gia’ da sempre conoscevo il vuoto che si apre dietro la vernice di quanto pensiamo di possedere – tutti lo sappiamo gia’ da sempre dentro di noi. Ma fino a ora l’incontro tra la mia coscienza e questo vuoto e’ stato un trauma frenetico da cui ho provato a schermarmi il prima possibile. Questa volta, invece, sto provando a guardare la solitudine in modo diverso. Ci sto provando, nel senso che questo modo nuovo e’ il desiderio al centro e all’orizzonte di quanto cerco di fare. Non che ci sia riuscito davvero in alcun modo – ma la fede mi detta di piegare la bilancia dal lato del desiderio piu’ che da quello del frutto dell’azione. Ho provato, sto provando a spostare il cuore un poco fuori il suo centro abituale, un passo piu’ vicino a quanto finora e’ stato per me il nucleo della paura: l’abbandono, la solitudine. La solitudine mi ha sempre posseduto, ma adesso sto provando a reclamare a mia volta di possederla. L’abbraccio tra la coscienza e le emozioni e’ un intrecciarsi di gambe e braccia e natiche tra graffi di unghie e morsi. Ci si ritrae almeno quanto ci si concede. La paura e’ un movimento perverso dell’ammirazione: in fondo sempre ammiriamo quanto ci fa paura, e ammiriamo esattamente il suo saperci tenere in proprio potere. Ma se siamo in grado di fermare per un attimo la nostra fuga dalla paura, possiamo ammirarne davvero appieno lo splendore. Per prima, la sua forza di definizione. Nell’attimo di panico, nell’esatto istante in cui noi stessi ci sentiamo scomparire, ogni singolo dettaglio del mondo acquisisce un dettaglio unico e spaventosamente netto. Il passaggio verso la paura e’ lo stesso che separa un’opera di Raffaello da una di Crivelli: il mondo filtrato dalla paura e’ delineato come un’immensa parete di geroglifici. Nella lunga epoca della paura, quella che ha preceduto per millenni l’epoca della speranza oggi al tramonto (1), l’arte era abituata a tracciare i tratti di un mondo del genere, preciso come le stilizzazioni arcaiche, come gli eroi dell’Iliade e le figure che si stagliano nei bassorilievi Assiri. Oggi emergiamo da una lunga epoca di soffusione del dettaglio, nell’arte come nella comodita’ della nostra vita, e solo da poco tempo abbiamo invertito la rotta verso il linguaggio e lo sguardo che piu’ si confanno a una nuova epoca della paura. Oggi come allora, il mondo filtrato dalla paura si staglia con una nitidezza cosi’ completa da venirci insopportabile alla vista. In effetti, il dolore stesso e’ il nome assegnato a una forma d’esperienza in cui la nitidezza del mondo e’ purissima. Di paura si soffre, a volte si muore, il piu’ delle volte si va per vie traverse dentro i cunicoli piu’ bassi della vita. Ma e’ davvero solo male quello che anima il male? Davvero non c’e’ niente di sacro e di salvifico nel dolore che ci umilia? In mezzo a tutto questo dolore, una cosa c’e’: la maesta’ con cui la paura esiste e emana se stessa attraverso il mondo. Il suo esserci in maniera cosi’ pura da far paura. Il mondo nel suo dettaglio piu’ nauseante e infame ci ricorda che al centro del cinema della vita sta una stessa luce di esistenza, splendente su quanti svaniscono e su quanti ancora hanno figure che si stagliano. La forza della paura non ci costringe mai, ma ci persuade: non c’e’ violenza bruta nel suo agire, ma un gioco perverso di attrazione e repulsione. Come l’amore (2), la paura si nutre della nostra obbedienza, essendo un demone “duro, squallido, scalzo, peregrino, uso a dormire nudo e frusto per terra, sulle soglie delle case e per le strade, le notti all’addiaccio.” (3) Come l’amore, la paura non ha alcun potere senza il consenso di chi le cede. La paura si abbevera alla stessa fonte di esistenza dell’amore e la serve a modo proprio, indirizzando chi incontra verso l’origine da cui proviene – per quanto con modi violenti, brutali e insopportabili. A chi la incontra sta decidere se dannarla come crudelta’ o redimerla come una speranza. A chi la chiama ‘dolore’ per primo nome tocca di riconoscerla nel suo lato piu’ orrendo, come stanza senza uscita, percorso che non porta ad alcuna conoscenza, esplosione che ci fa perdere casa e mondo: la crudelta’. E in effetti la crudelta’ e’ un viso terribile che appartiene al mondo, una sua possibilita’ insita: e’ sempre possibile avere esperienza del mondo al modo della crudelta’ e anche conformare noi stessi alla crudelta’ tanto da propagarla attivamente. Ma la crudelta’ non e’ l’unico nome dell’esistenza. Li’ dove scuole di filosofi ‘realisti’ e ‘nominalisti’ si accapigliano se le cose invisibili siano una realta’ effettiva o soltanto nomi convenzionali, l’esperienza della paura ci insegna che la risposta e’ insieme l’una e l’altra: quando passiamo attraverso la paura, la sua esistenza stessa, la stessa luce che regge il mondo ci investe con una forza schiacciante e inequivocabile. La paura ci insegna che l’invisibile e’ reale e che dimora al cuore e oltre la pelle del visibile. Ma la tecnica con cui la paura disegna il mondo ci ricorda anche altro, oltre la luce che illumina e da’ corpo a tutto. Ci conferma che la realta’ e’ fatta di nomi, ciascuno convenzionale e mutevole – di piu’, che il ‘mondo’ stesso non e’ altro che una collezione di nomi che diventano spaventosi quando acquistano tanta potenza autonoma da non consentirci piu’ di maneggiarli. Ma lo svanire e oscurarsi reciproco del mondo al modo della crudelta’ non e’ che una piega in un vestito piu’ grande, che investe tutto quanto esiste: l’esistenza stessa, il suo mistero e la sua magnificenza. Non si cerchi un qualche pantesimo in queste parole: la realta’ e’ irriducibile al solo principio dell’esistenza (e viceversa), poiche’ l‘oscurita’ dei nomi ne e’ parte altrettanto legittima. Dio e il mondo rimangono distinti e avvinghiati, come due figure in un pas a deux (4). Ma l’eternita’ appartiene tanto all’uno quanto all’altro e l’abisso eterno che si rivela nel mondo della paura e’ la stessa eterna terraferma dell’esistenza – che ci sostiene, cui apparteniamo, che ci appartiene, con cui condividiamo il destino di eternita’. Nel guardare la maesta’ spaventosa (tremenda et fascinans) dell’esistenza che si manifesta quando il mondo prende la forma della paura, possiamo vedere qualcosa del nostro stesso trionfo. La forza immensa che deforma e trasfigura il mondo governato dalla paura anima anche noi con la stessa intensita’, pur se da una prospettiva diversa. La paura non mente nello svelarci un mondo enormemente potente, traversato da qualcosa di inapprocciabile e accecante – ma possiamo riconoscere quella luce abbagliante rivelata dalla paura come la stessa sostanza di cui noi stessi siamo fatti: il mistero dell’esistenza stessa. Dietro le figure del mondo tracciate dalla paura – come dietro quelle tracciate piu’ delicatamente dalla conoscenza – c’e’ la stessa luce che compone noi stessi. A noi appartiene tanto l’essere soggiogati dalla paura quanto la forza del suo soggiogare – cosi’ che il carnefice e le sue vittime appaiono come due braccia di uno stesso corpo, strette a strangolarsi e a farsi strangolare. L’ammirazione per la violenza di quanto ci fa paura puo’ diventare una forza benefica come ammirazione di cio’ che noi stessi siamo, riconoscendo il nostro nucleo piu’ proprio nel cuore di esistenza che sostiene ogni cosa – che sia debole o tagliente, catalogabile o invisibile. Quella forza suprema che ci confronta, come un drago del mito, e’ la nostra stessa forza. Il duello che ci oppone non puo’ tramutarsi nell’annichilimento di una parte sull’altra. Qualunque minaccia incomba su di noi non puo’ estirpare la nostra esistenza senza estirpare la propria, giusto un attimo prima di colpirci. Persino il dolore, persino l’abbandono non possono davvero sopraffarci, a prescindere da quanto possiamo temere. La paura ci spinge a identificarci unicamente con noi stessi nel senso piu’ ristretto del termine, fino all’anoressia fisica o intellettuale. In quel mondo ciascuno di noi e’ una piccola patria, un minuscolo centro di calore e di frontiere spinate. Un centro, tra l’altro, che sempre si reputa innocente e agisce con piena auto-assoluzione. Un centro che pero’ puo’ ancora accorgersi dei barlumi di un proprio riflesso accesi ovunque. E’ sempre possibile redimere la realta’ umiliante della paura in un mondo di maesta’ familiare e condivisa tra ogni forma di esistenza – tra vittima e carnefice, tra collo e lama. La paura ci insegna, ma noi possiamo superare la nostra maestra. Guardandola, ascoltandola, mangiandola e evacuandola – come si fa con i maestri. Ci vuole fede per poter sostenere lo sguardo pietrificante della paura, che a ogni istante minaccia di tramutarci in cose. Ci vuole un dubbio incrollabile sulla verita’ delle sue minacce e un grande amore per lo scintillare di occhi che si rivela anche negli angoli piu’ bui del suo mondo. Quegli occhi che intravediamo, quella speranza, e’ la stessa sostanza che fa da pavimento a ogni discussione metafisica: siamo noi, sono le cose intorno a noi, e’ l’esistenza stessa. Un’esistenza buona e cattiva, ma sicuramente ‘bene’ – per quello che del bene ne possiamo capire noi. La violenza estrema di un mondo governato dalla paura e’ il riflesso laterale di una luce che noi stessi siamo – una luce che non muore e per cui non c’e’ apocalisse. Al fondo della paura si trova un viso amico, che ci sorride tanto quanto noi sorridiamo a esso. C’e’ una presenza benevola anche nella piu’ agghiacciante solitudine. A guardarla con benevolenza si finisce per amarla, e ad amarla si finisce per diventare un'unica cosa con essa. Si torna indietro, ci si ricorda della solitudine assoluta dell’istante in cui siamo nati – e di come il mondo ancora ci sembrasse, per anni a venire, un luogo meravigliosamente estraneo e familiare come il palmo delle nostre stesse mani.





(1) Si puo’ definire l’epoca primitiva e dell’arcaismo come l’epoca della paura: nella quale l’esperienza del mondo per gli uomini era spesso confrontata dalla superpotenza di quanto e’ esterno alla coscienza (il mondo o la natura, per cosi’ dire). Con la creazione dell’arte in quanto tale e del mito si apre un passaggio verso l’esterno della paura, che si compie con l’invenzione della teologia e della filosofia. A quel punto, con la scoperta di un ‘altrove’ al di la’ del mondo e della natura, si apre anche l’epoca della speranza. La speranza si declina a volte per il futuro, a volte per l’eternita’, ma in entrambi casi guarda oltre la cortina posta attorno al mondo dalla paura. Da qualche tempo a questa parte, pare, si sta tornando all’epoca della paura – scoprendo cosi’ che anche queste epoche, come gli yuga dell’induismo, sono solo ere cicliche destinate ad alternarsi. Proprio per questo oggi l’arte arcaica risplende sempre piu’ attuale, mentre l’invenzione del classicismo si fa una memoria sempre piu’ urgente da ricordare. Gia’ in questo inizio della nuova eta’ della paura si racchiude il seme che costruira’ nuovamente l’eta’ della speranza. Sta a noi coltivarlo, se lo vorremo. Esso cresce comunque da solo, custodito da un invisibile giardiniere come l’Imam di questo tempo, il Mahdi.


(2) Vedi Simone Weil, La Discesa di Dio, in S. Weil, La Rivelazione Greca, Milano: Adelphi, 2014.


(3) Platone, Simposio, 203 – il demone in questione e’ Eros, il dio dell’amore.


(4) Pensiamo un attimo, lateralmente, alla malinconia della danza, al suo poter solo imitare il movimento degli astri senza (piu’) essere noi stessi astri. La danza riprende la malinconia del gesto arcaico, che imitava e evocava eventi mitici avvenuti prima e fuori dal tempo. La danza racchiude in se’ una nostalgia profonda e il suo agire e’ un segnalare un ‘altrove’ di cui si puo’ rappresentare solo un riflesso. L’alterita’ primigenia tra linguaggio e ineffabile e’ la lezione fondamentale della danza, che si rappresenta in maniera piu’ evidente nella stilizzazione della danza a due (pas a deux).

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